ALBUM DI FAMIGLIA

 

Entrambe Porsche, entrambe affascinanti classiche ed entrambe punti di riferimento per la guida e la loro importanza storica, ma l’unica vera questione è: quale scegliere per sorridere a trentadue denti lungo una strada tutta curve?

Porsche ha una qual certa reputazione in fatto di sportive, ha prodotto alcune delle più emozionanti, veloci e affilate auto esistenti al mondo, ha stabilito decine di record al Nurburgring, ha una storia più imbottita di un panino mediterraneo di successi e la 911 è considerata da molti come IL riferimento in termini di dinamica di guida e coinvolgimento meccanico. Insomma, mica noccioline. La 991 GT3 o la GT2 RS, o ancora la 918 Spyder sono gli ultimi sublimi esempi di supercar che arrivano dritte dalle fucine di Stoccarda, partorite da quelle menti che si spacciano per fredde e rigide e poi ti tirano fuori mezzi da 9.000 giri di limitatore, traversi infiniti e tempi sul giro da infarto. Oggi però ce la prenderemo con calma perché andremo esattamente al lato opposto dell’albero genealogico tedesco a scoprire le radici di sportive così eccezionali. Per farlo dobbiamo tirare in ballo due rare classiche che rappresentano nientemeno che la genesi Porsche: un’incantevole 356 Speedster del 1954 e una vivace 911 2.0 del 1965 (eh lo so, esiste anche la Type 64, ma quella non me l’hanno prestata…). Entrambe hanno una storia importante, la 356 perché da modello ‘economico’ e spartano è diventata ricercatissima, la 911 2.0 perché è stata l’origine della leggenda, il primo germoglio di una gloriosa stirpe. Visto che le due Porsche appartengono al medesimo proprietario ho svolto le prove in occasioni diverse, e per diritto di anzianità cominciamo proprio con la Speedster. Cavoli quanto è bella. In foto non riesce a rendere appieno l’idea, eppure dal vivo è quasi buffo quanto un’auto così piccola e apparentemente semplice possa colpirvi: il Signal Red è fantastico e quelle morbide curve di acciaio sono assolutamente incantevoli, tanto basilari quanto eleganti e artigianali; una bella rivincita per un’auto nata come variante più abbordabile della 356 Cabriolet.

L’idea poteva sembrare un ripiego, invece una 356 scoperta con un parabrezza più filante, meno peso e lo stesso brioso flat four fu davvero una manna per gli amanti del piacere di guida, specialmente in California dove a metà anni ’50 fu un successo. Oggigiorno ad una versione meno accessoriata, più leggera e divertente appiccicherebbero una targhetta con un nome figo e ricercato e la farebbero pagare il doppio. A rendere la mia esperienza con la 356 ancora più entusiasmante ci penserà il proprietario con una semplice domanda: “guarda, ho trovato in un libro la foto di una Speedster 1500 sul Passo del Vivione durante la Liegi-Roma-Liegi, che dici, riusciamo a ricreare quello scatto?”. Come no! Conosciuta anche come ‘Marathon de la route’ la Liegi-Roma-Liegi era una sfibrante gara di durata nata nel 1931 che partiva dal capoluogo Belga per arrivare fino alla capitale italiana e ritorno, con il percorso che di frequente variava raggiungendo persino i 5.000 chilometri di lunghezza. Questa distanza andava coperta in 90 ore, il che significava una media di 55 km/h… pochi giusto? Non esattamente. La gara si correva su strade impervie, spesso sterrate, aperte al traffico, non c’erano autostrade, capitava di affrontare passi sconosciuti di notte e l’assistenza era quasi nulla. Inoltre in quel lasso di tempo andavano inclusi i rifornimenti di carburante, semafori, passaggi a livello, forature, guasti meccanici, trovare la strada giusta (senza smartphone, navigatori, cartelli stradali), mangiare e tecnicamente dormire, anche se nessuno perdeva tempo per un’attività così futile. Vincere la Liegi-Roma-Liegi significava avere una macchina veloce e affidabile e un equipaggio sovrumano… la Mille Miglia a confronto sembrava quasi una garetta tra boy scout.

Così, in modo molto meno eroico, passo ore a fissare Google Maps finché non ho in mente una semi-traccia del punto giusto per lo scatto, e in mano il volante della Speedster. Giro la chiave – al centro, non a sinistra come sulle 356 normali – e mi preparo a un viaggio di tre ore fino alla cima del Vivione, passando dalla Malegno-Borno e dalla suggestiva Val di Scalve per rendere le cose più avventurose. Guidare una 356 è sempre piacevole, ma la Speedster è una vera gioia: la sua natura spartana significa che il peso si aggira intorno ai 750 chili mossi da un brillante flat four, portato in questo caso a 1.6 litri e circa 75 cavalli di potenza. Se vi sembra una cavalleria ridicola ricredetevi, grazie al peso irrisorio e un’ottima progettazione alle spalle le prestazioni sono più vivaci di quanto potreste sospettare. Il quattro cilindri boxer preferisce girare tra i 2.500 e i 4.500 giri, ha una bella reattività e affronta la famosa Malegno-Borno senza il minimo sforzo, con lo scarico Sebring capace di un sound davvero sportivo, molto più coinvolgente e meno raffazzonato di una 356 standard. Una volta che vi siete abituati alle dimensioni e al peso del volante dovete imparare a utilizzare il cambio al meglio: la leva è sottilissima e la corsa esagerata ma quando capite bene la spaziatura dei rapporti e usate la giusta delicatezza scoprite di aver a disposizione una trasmissione comunicativa e con innesti sorprendentemente precisi. Senza finestrini laterali (letteralmente, quelli restano nel baule anteriore) o capote vi sentite molto più partecipi dell’ambiente circostante, che ben presto si trasforma nei tornanti stretti del Vivione, un passo immerso nel verde e con un meteo parecchio imprevedibile.

Troviamo presto la fantomatica curva, scattiamo una foto di rito – nonostante sia cambiato quasi tutto tra asfalto, vegetazione e ringhiere – e dopo un piatto di pizzoccheri torno subito al volante della Speedster. Le sospensioni come su tutte le 356 sono impressionanti per l’epoca, smorzano magnificamente le asperità della strada e non sono vaghe, mai però prendersi troppa confidenza data la tendenza della scocca ad oscillare nelle curve ad alta velocità. Servono abilità e sensibilità sia in ingresso che in percorrenza, e se avrete fatto tutto per bene resterete stupiti dalla bontà di questa Porsche di 67 anni. Il motore e il sound sono emozionanti, il cambio una delizia e la dinamica una piacevole sfida: pian piano comincio a trattare questa Speedster non come una costosissima classica ma come un’auto coinvolgente capace di immergermi nella guida, dalla quale cercare di estrapolare il suo e il vostro meglio. Mentre attraverso la Val di Scalve finisco per alzare parecchio il ritmo e come ciliegina sulla torta lo scarico Sebring inizia a tirare più fucilate e scoppi di una mitragliatrice in funzione, con qualche occasionale sfiammata nel buio delle gallerie. Lo show imbastito dal terminale e le qualità della Speedster fanno passare in fretta la valle bergamasca e dopo tanti complimenti da chi ci incrocia e qualche chilometro di tangenziale torniamo al punto di partenza, lo stesso esatto punto che mi vedrà far conoscenza con l’altra classica Porsche. All’inizio degli anni ’60 la reputazione e le qualità della 356 sono ben consolidate, anni luce dai prototipi in alluminio realizzati all’interno di una segheria a Gmund, il progetto però risale pur sempre al 1948 e la casa tedesca sente il bisogno di rinnovarsi. Ferry Porsche, che ha già dato con il Maggiolino e la 356, prende il figlio Ferdinand ‘Butzi’ e gli dice “ora fai te”.

Butzi getta le basi per una sportiva più potente e comoda rispetto alla precedente e con impostazione simile (sempre motore a sbalzo e trazione posteriore) ma crescono dimensioni, comfort, potenza, la linea è più aerodinamica e slanciata e il flat four guadagna due cilindri diventando l’iconico flat six che conosciamo. Il debutto della 911 avviene nel 1963 con risultati quasi opposti rispetto all’inatteso successo della Speedster: la più lussuosa e potente 911 2.0 viene criticata da molti puristi che rimpiangono la leggerezza e la compattezza della 356. La 2.0 è ritenuta troppo ingombrante e ‘imborghesita’, il prezzo d’acquisto è impegnativo e il passo corto combinato con il motore a sbalzo e l’anteriore leggero la rendono terribilmente esigente da guidare; persino la brochure tedesca sconsiglia l’auto agli inesperti. Insomma, siamo ben lontani dallo status leggendario di cui gode oggi la 911. Poco a poco però il pubblico inizia a concentrarsi anche sugli aspetti positivi: la linea filante riscuote tanti consensi, la qualità costruttiva è ottima e il flat six ha carattere da vendere. Qualche anno dopo il passo sarà allungato e – soluzione umile quanto efficace – agli estremi dei paraurti verrà inserita una coppia di pesi da 12 chili l’uno per contrastare la portanza sopra i 110 km/h; io però non avrò questi lussi perché la 911 verniciata in un bellissimo Bali Blu è la telaio n° 930, ed essendo una delle prime prodotte è ancora pericolosa come si raccontava all’epoca. Evviva. La tradizione Porsche di Le Mans significa che il blocchetto d’accensione è a sinistra, giro la chiave e il flat six si desta con un borbottio confuso e irrequieto: i carburatori Solex e i sei cilindri mettono già in chiaro che non amano girare in modo pacato.

Sarei anche d’accordo se non fosse che la 2.0 non è proprio una sportiva “sali e guida” visto che tra pedaliera, sterzo e cambio avete i vostri bei compiti a casa da svolgere. Il cambio ha uno schema dog-leg con la prima in basso (dove generalmente sarebbe la seconda), una disposizione molto intelligente per la guida sportiva alla quale ci si abitua in fretta. La parte complicata sta nella leva dura e nei leveraggi poco spaziati che necessitano di tanta precisione e pazienza prima di prenderci la mano, senza comunque arrivare alla fluidità delle cambiate della Speedster. Lo sterzo si appesantisce vistosamente quando si caricano le gomme e la pedaliera non è ideale per il punta tacco, eppure con calma e tatto si inizia a entrare in sintonia con la 911. Il flat six progettato da Hans Mezger accetta di girare anche a 2.000/3.000 giri dimostrandosi già reattivo ma portatelo più in alto e vedrete che allungherà avidamente persino verso i 6.500 giri, con un sound quasi rabbioso al passare dei 5.000 e prestazioni rispettabili. Le sospensioni continuano a essere fantasticheancora meglio di quelle della 356 – assorbendo a pieno qualunque ferita dell’asfalto, buche imbarazzanti e sopportando con nonchalance una parte sterrata che conduceva a quel bel fiume sullo sfondo. E questo handling più temibile di una lettera del fisco? Passo corto, motore a sbalzo e anteriore leggero non sembrano la combinazione più rassicurante della terra (specialmente quando non avete cinture) e sopra i 100 km/h la scocca oscilla come una tovaglia in balia del vento intimorendovi un po’. Buttate la 911 in curva invece e avrete un comportamento curioso: il bilanciamento sembra continuamente spostarsi da una parte all’altra seguendo il ritmo del boxer dietro di voi – che detta così non sembra una gran cosa – eppure la tenuta è molto buona, il pesantissimo sterzo restituisce il giusto feeling e questo cercare di mantenere la traiettoria impostata sorvegliando il posteriore è tanto impegnativo quanto gratificante.

La 2.0 non è un’auto semplice da portare al limite e di certo non è la classica più composta e precisa al mondo, ma il primo ‘bozzolo’ della 911 dimostra già di avere un’immancabile vena sportiva e di trasudare carattere. Inoltre la linea è (e sarà) senza tempo, gli interni sono di ottima qualità così come i freni e più guidate questa Porsche più riuscite ad abituarvi ai suoi lati scontrosi fin quasi a domarli. Negli anni a venire quei caparbi dei tedeschi sono rimasti fermi sulle loro convinzioni perfezionando un progetto che da insensato sulla carta si è evoluto per diventare un punto di riferimento universale in termini di dinamica. La 2.0 con il suo comportamento tosto e l’emozionante flat six mi ha insegnato tanto, è stato un piacere poter guidare la vera genesi di tutte le 911, una coupé che già 55 anni fa incarnava parte di quella filosofia. In fin dei conti però è proprio la 356 Speedster la Porsche che mi ha conquistato davvero: è così delicata, agile e coinvolgente che vi dimenticate abbia 67 anni. La prima volta che ho avuto il suo volante tra le mani ho pensato per un attimo “oddio”, invece dopo 300 chilometri passati insieme è riuscita a coinvolgermi più di tante fredde moderne. E’ merito della 356 se la 911 aveva già un’ottima base di partenza alla quale ispirarsi, ed è merito della 2.0 se oggi possiamo ancora godere di Porsche incredibilmente meccaniche.

Un grande ringraziamento a Maurizio Colpani per le belle esperienze

di Tommaso Ferrari