WILD CARD
Poco nota e mai davvero competitiva la Nissan Silvia 240 RS è stata una delle concorrenti più enigmatiche dell’assurdo Gruppo B dove raccolse poche soddisfazioni. Da guidare però è tutt’altro paio di maniche.
Per un breve e tanto affascinante quanto folle periodo nella storia delle competizioni i regolamenti, le normative, le restrizioni cessarono di esistere, quasi dimenticati. Niente condizioni, niente limiti, nessun freno all’ingegno umano. Blackout totale. La nuova categoria introdotta dalla FIA per sostituire il Gruppo 4 e il Gruppo 5 viene identificata da una singola lettera, una lettera che nel mondo del Motorsport suscita automaticamente rispetto e riverenza, per non dire timore: l’era del Gruppo B. Non che il Gruppo 4 o ancor più il Gruppo 5 fossero sottotono e vedessero schierate vetturette timide, ma il fatto è che la regolamentazione del Gruppo B non ebbe il maggior successo sulle piste – dove per quanto infimo esiste un qualche margine di sicurezza – bensì sugli sterrati dei rally, e lì a separare la vostra faccia da un platano o un burrone ci sono solo qualche filo d’erba, talento e fortuna nel non avere cedimenti meccanici. Le poche regole del Gruppo B fanno quasi sorridere: le vetture devono avere due posti affiancati, un certo peso minimo in relazione alla cilindrata e le gomme devono rispettare una determinata larghezza. Punto. Salvo per le basilari disposizioni di sicurezza non esistono vincoli riguardanti potenza, trazione, aerodinamica, materiali, trasmissione o collocazione del motore, è come se in FIA avessero detto: “toh, avete carta bianca, vediamo cosa riuscite a tirare fuori”. E le case automobilistiche prendono alla lettera la questione; senza limiti alla pressione delle turbine o alla tecnologia dei materiali né ai metodi costruttivi negli anni ’80 nascono dei mostri di kevlar e carbonio, vetture con prestazioni terrificanti e caratteri indomabili, affidate a piloti altrettanto fenomenali.
Oltre a queste stimolanti condizioni le case sono attirate dal numero minimo di esemplari stradali da produrre per l’omologazione, solamente 200, cosa che spinge un gran numero di brand a competere nel Gruppo B. La categoria più importante è la B/12 (oltre 2.000 cc di cilindrata, con un fattore di moltiplica di 1.4 per i propulsori turbo) che vede schierate vetture che guadagneranno lo status di leggenda a causa della loro ferocia: Audi Sport Quattro S1, Peugeot 205 T16, Lancia Delta S4, Opel Ascona 400, MG Metro 6R4, Ford RS200, Renault 5 Maxi Turbo… se il Gruppo 4 è un incontro di pugilato regolamentato da gentiluomini il Gruppo B è una rissa in un vicolo buio con mazze chiodate e tubi di ferro. Brutale. Molte delle vetture – come la Delta S4 o l’Audi S1 – alla fine della loro carriera arrivano a 600 cavalli, quando le WRC moderne sviluppano intorno ai 350 cavalli e con ben altri requisiti di sicurezza. Le libertà del Gruppo B stimolano quella parte recondita nel cervello di tecnici e ingegneri che sussurra oscuramente “chissà fin dove riusciamo a spingerci, troviamo un limite, cestiniamolo e alziamolo di una tacca o due”. Dal 1982 al 1986 il mondo conosce la massima espressione dei rally, l’apice della follia meccanica degli anni ’80. Pressioni estreme, fiamme sputate dai terminali, sound selvaggi, competitività esagerata, guida scenografica come poche e velocità difficili da metabolizzare su un percorso sterrato… le gare del Gruppo B sono incredibili da vedere, hanno un solo, insignificante, trascurabile difetto: i piloti muoiono. E gli spettatori anche. Le prestazioni ultraterrene delle vetture sfortunatamente non vanno di pari passo con gli standard di sicurezza, sia delle vetture che dei percorsi di gara, e nell’arco di cinque stagioni avvengono decine di incidenti, molti dei quali fatali (i più tristemente noti sono la scomparsa di Attilio Bettega, Henri Toivonen e Sergio Cresto) che portano alla soppressione del Gruppo B alla fine del 1986.
L’aura di una delle categorie più avvincenti e impressionanti della storia però non ha mai smesso di affascinare le generazioni seguenti, come un racconto narrato al chiarore di un focolare estivo che ogni volta procura brividi nonostante sappiate già il finale. Audi, Peugeot, Opel, Lancia sono i marchi capaci di imporsi nella turbinosa era delle Gruppo B con vetture estreme e sofisticate, dotate di trazione integrale, potenze che sfioravano i 600 cavalli e un peso intorno ai 900 chili, ma per ognuna delle superstar dell’epoca ci sono state altrettante concorrenti rimaste nell’ombra. Citroen BX 4TC, Toyota Celica Twin-cam turbo, Mazda RX-7… e la poco nota Nissan 240 RS Gr. B, una delle vetture più enigmatiche del periodo. E oggi sto per guidarla. La 240 RS è un’evoluzione dalla Nissan Violet GTS Gruppo 4 e sotto quella carrozzeria squadrata come un gradino in pietra si cela una meccanica piuttosto tradizionale, funzionale e affidabile, eppure non estrema quanto vi aspettereste: 2.340 cc di cilindrata, quattro cilindri, motore aspirato, trazione posteriore, 265 cavalli (in seguito saliranno a 280 con la Evo), carburatori Solex da 50 – niente iniezione stranamente – e una trasmissione a cinque marce. Rispetto all’FJ20 della Violet l’FJ24 della 240 RS ha aspirazione e scarico maggiorati, bielle più robuste, pistoni più leggeri e un rapporto di compressione salito a ben 11.5:1, solo che non potete fare a meno di chiedervi come mai Nissan non si sia spinta oltre. Il turbocompressore era stato collaudato in gara con la Silvia Turbo Gr. 2 – sempre con Timo Salonen alla guida – e per quanto acerbo si stava già sperimentando l’efficacissimo sistema ATTESA-ETS a trazione integrale che debutterà nel 1989 con la Skyline R32; come se non bastasse il monoblocco della 240 resta in ghisa, a differenza della testa che è d’alluminio.
Il che fa sorgere una grossa questione: come fa una spigolosa tre volumi a trazione posteriore e 280 cavalli a competere contro belve che hanno minimo 450 cavalli e il doppio della coppia e delle ruote motrici? Semplice… non può. La 240 RS non è la protagonista di una favola dove la situazione si ribalta a sorpresa, nasce già con premesse poco incoraggianti e sfortunatamente continua la sua vita nel Motorsport senza clamorosi colpi di scena. Nissan è protagonista di una lotta impari, Davide contro Golia, solo che in questo caso Golia è a trazione integrale, turbocompresso e con quasi il doppio dei cavalli rispetto alla giapponese. Non c’è partita. L’unico vantaggio della 240 RS è che è tosta, tendenzialmente affidabile e molto a suo agio sullo sterrato e sulle lunghe distanze. Al primo Safari Rally del Gr. B, nel 1983, la giapponese manca per un soffio la vittoria: Timo Salonen ha un’ora e mezza di vantaggio su Ari Vatanen (a bordo della Opel Ascona 400) ma il management Nissan stupidamente gli vieta di perdere poco più di mezz’ora fermandosi per risolvere un problema alla testa, che inevitabilmente cede. La 240 RS dimostrerà di essere una degna partecipante in altre occasioni, arrivando seconda in Nuova Zelanda, finendo terza al Rally Costa d’Avorio e posizionandosi spesso nella Top 10 sempre in rally gravosi; come ulteriore consolazione vincerà nel 1985 il campionato nazionale di Rally in Grecia. E mentre sono qua, stretto nelle cinture a 5 punti, accaldato, grondante di sudore, stanco e raggiante dopo aver lottato con la 240 RS penso che non me ne potrebbe fregare meno della sua poca sofisticatezza o del palmares scarso, da guidare è stellare. Non sono tanto le prestazioni a impressionarvi, è l’insieme di sensazioni dense, vive, così forti da entrarti sottopelle e lasciarti un segno come una cicatrice.
Però queste sensazioni vanno guadagnate, già dall’inizio. Entrare nella colorata Gr. B necessita di una certa grazia, o perlomeno una parvenza di agilità: bisogna scavalcare la traversa del rollbar cercando di non ammaccarvi le ginocchia e poi calarsi negli strettissimi sedili Sparco (moderni per questioni di omologazione, dato che la Nissan corre tutt’oggi). Allaccio ben aderenti le cinture a cinque punti e lascio girare qualche secondo la rumorosissima pompa di benzina. E poi il putiferio. La 240 RS si risveglia in tutta la sua rabbia facendovi comprendere in un secondo cosa significhi non avere silenziatori, un rombo vibrante e possente che scuote tutta la scocca e vi intimidisce. E non siete ancora partiti, cosa piuttosto complessa tra l’altro. Le auto da corsa di una certa caratura hanno sempre le stesse caratteristiche, una frizione più tosta di un Navy Seal e un acceleratore delicato come una lamina di ghiaccio; tradotto, fate tutto per bene o sembrerete una via di mezzo tra un neopatentato e un ottuagenario che odia il terzo pedale. In più il 2.4 litri va tenuto su di giri, così rilascio lentamente ma deciso la granitica frizione, dò sempre più gas e parto in un assurdo concerto di decibel, scoppi e fischi della trasmissione. Che spettacolo, voglio un casco e un navigatore. Una volta in movimento le cose si fanno leggermente più facili e la 240 RS vi inonda di informazioni. La posizione di guida è perfetta, il volante in Alcantara garantisce grip, ha dimensioni impeccabili e continua a muoversi delicatamente sotto le vostre dita per sussurrarvi come sia messo l’asfalto e quanto si stiano sforzando le gomme, oltre ai vostri bicipiti, dato che lo sterzo è tremendamente duro in manovra. Pensate si alleggerisca prendendo velocità? Illusi. Il cambio dogleg – con la prima in basso, al posto della seconda – è meccanicità pura, necessita anche qui di forza ma vi ripaga con una precisione sorprendente e uno dei seconda terza più esaltanti che possiate trovare su un’auto.
Visto che il passaggio di marcia in questo caso avviene in linea retta (come fare terza quarta) faccio infuriare il quattro cilindri verso il limitatore e poi – bam – butto dentro la terza quasi fosse un sequenziale, godendomi quella stupenda, cristallina sensazione di ingranaggi che si abbracciano senza la minima sbavatura. Le persone che mi vedono passare mi fissano allibite, spaesate. La Nissan con quell’aspetto squadrato, i fari da gara e la vistosa livrea non si può certo definire ‘elegante’ eppure non c’è nessuno che non guardi ammirato e confuso la 240 RS; è un po’ come vedere uno stambecco in centro a Catania: prima non capisci bene cosa sia, poi ti chiedi come diavolo faccia ad essere lì. Qualcuno incita ad aprire il gas e non mi faccio certo pregare. La 240 RS scatta in avanti già ai medi, urla, scoppia e entra davvero nel vivo della sua spinta al passare dei 5.000 giri, incattivendo ancor di più il sound come per dire “Oh, finalmente sei nel range giusto”. Il bialbero ama girare in alto dove sviluppa al meglio la sua potenza, nonostante gli ultimi 1.000 giri potrebbero essere persino più eccitanti con la giusta messa a punto. Dinamicamente la giapponese è esattamente come vi aspettereste una vettura per i Safari: l’anteriore ha del notevole rollio e ‘galleggiamento’ in ingresso curva per poi assestarsi solido sugli ammortizzatori e le sospensioni non badano quasi alle buche e alle crepe scavate nell’asfalto; nemmeno le pessime strade italiane possono scalfire un comparto dinamico pensato per gli sterrati più estenuanti del globo. La vera pecca della 240 RS è dovuta alla sua età: probabilmente le frizioni del differenziale autobloccante si sono consumate negli anni, così anziché bloccare al 75% siamo più vicini al… 7,5%.
E’ frustrante sentire la ruota interna pattinare appena iniziate a far scivolare il posteriore, specialmente perché in quei brevi attimi di controsterzo la Nissan mi dà enorme confidenza e sfoggia un bilanciamento opposto al suo look: raffinatissimo, agile e meno intimidatorio del previsto grazie al passo lungo e all’ottima distribuzione dei pesi. Concludo a malincuore quell’esperienza sensoriale chiamata 240 RS godendomi la reattività dell’acceleratore in scalata insieme al latrato dei carburatori e dello scarico aperto, il corposo sterzo, la gioia delle cambiate con i fischi della trasmissione e anche solo il fatto di essere al volante di un’auto che contribuì alla storia del Gruppo B. La Nissan è veramente una valanga di emozioni che vi travolge alla sprovvista, non ha i numeri delle sportive moderne ma quello che ho provato con lei non si può spiegare attraverso la scheda di un comunicato stampa, va ben oltre, a partire dall’impegno obbligatorio per esplorarne le capacità. Mi sgancio provato e sudato abbandonando gli interni da competizione, e mentre prendo fiato ammiro i rinforzi del telaio, il serbatoio posteriore dell’olio (la lubrificazione è a carter secco), il portacaschi, gli sganci rapidi del cofano… tutti quei dettagli che completano l’incredibile guida appena vissuta. Se la casa giapponese avesse buttato un turbo su quel 2.4 litri – ottenendo senza esagerare 340/350 cavalli – e sperimentato la trazione integrale forse la 240 RS avrebbe avuto un destino diverso, più vittorioso e gratificante. Oppure no. I giochi sono stati fatti, l’era del Gruppo B si è conclusa da decenni e a dispetto degli scarsi risultati la tozza Nissan è ricordata con affetto e stima da chi ha avuto modo di conoscerla da vicino. E ora, con soddisfazione, anch’io so il perché.
di Tommaso Ferrari