MICRO MACHINE NIPPONICA

In Europa pare ve ne siano solo una decina, e persino tra gli appassionati è cosa poco nota. Ecco a voi la Honda City Turbo II, mini hot hatch del Sol Levante famosa per la sua estetica gonfiata, per le prestazioni briose e… per il suo baule

Tempi buffi gli anni ’80: acquistavate un motorino, e come optional potevate richiedere un’intera auto. Tempi dove persino accessori a due ruote più leggeri dei vostri pensieri erano ben congegnati e studiati, al pari delle quattro ruote che li contenevano. Squadrato, vistoso, rivoluzionario, il cinquantino Honda rosso fiammante è diventato nel tempo quasi più celebre del suo recipiente su ruote, anche se la vera protagonista resta e resterà sempre la micro machine grigia di questo servizio. Mettetevi comodi, questa è la storia della Honda City Turbo II e del suo fido allegato, il Motocompo. Negli anni ’60 il Giappone è tempestato da Kei Car, macchinette dalle dimensioni ridotte e dalla ancor più scarsa potenza, ideali per avere una vettura cittadina che costi e consumi poco.

La decade successiva Honda introduce l’intramontabile Civic, una compatta affidabile, pratica e spaziosa, che si distacca dalla regolamentazione di queste adorabili vetturette per essere più matura e internazionale. Ne venderanno a trilioni, ma verso la fine degli anni ’70 la casa giapponese decide di creare un anello di congiunzione tra le Kei Car e la loro hatchback di successo, qualcosa di più economico della Civic e al tempo stesso slegato da dimensioni e potenze da matrioska. Tre anni di sviluppo e nel Novembre del 1981 nasce la Honda City, una citycar non particolarmente bella ma sorprendentemente pratica e funzionale: trazione anteriore, motore trasversale, meno di 3,40 metri di lunghezza, parca nei consumi e nella manutenzione e con un’ottima abitabilità. La nota indubbiamente più colorata della City è il Motocompo, un motorino ripiegabile disponibile come optional per 80.000 yen; arrivate ai margini del centro città, sfoderate il vostro mini scooter e vi dirigete a lavoro senza preoccuparvi del traffico.

A dispetto delle sue umili origini la intelligentissima City manca di un soffio il premio di ‘Japanese Car Of The Year’, dietro alla ben più costosa e lussuosa Toyota Soarer. Il motore di base è un 1.2 litri aspirato da 63 cavalli, che salgono a 67 nella versione City R o nella particolarissima Manhattan Sound. Soddisfatta delle vendite, Honda non ha assolutamente intenzione di sviluppare una versione più pepata della City… e difatti non lo farà. Se la troverà già pronta. Hirotoshi Honda, figlio di Soichiro Honda (il fondatore dell’omonimo brand), è anche proprietario e ideatore della Mugen Motorsports, azienda di preparazioni e componenti aftermarket specializzata in Honda. Intrigato dalla City, Hirotoshi comincia a progettarne una versione sportiva aggiungendo un turbocompressore, l’iniezione elettronica, un kit estetico più risoluto e migliorie dinamiche. Le alte sfere Honda sono così colpite dal prototipo da dar subito il via libera, e al Tokyo Motor Show di fine 1982 compare la Honda City Turbo con ben 100 cavalli e un look pestifero.

Esattamente dodici mesi dopo il look si trasforma da pestifero in arrogante, grazie alla City Turbo II, soprannominata ‘Bulldog’ a causa della sua estetica tozza e palestrata, a cominciare dal cofano a forma di teglia rovesciata. La novità meccanica più lampante è l’aggiunta di un intercooler, una modifica che ha reso così fiera Honda da farcelo scrivere sulle fiancate. Oltre a ciò abbiamo un corpo farfallato più ampio, un rapporto di compressione leggermente più elevato ed una nuova girante per la turbina RHB51, così che l’1.2 litri cresca fino a 110 cavalli e 160 Nm di coppia, non malaccio quando pesate 735 chili. Le prestazioni scoppiettanti (0-100 in poco più di 8 secondi e velocità massima vicina ai 180 km/h) sono palesate dalla carrozzeria della Turbo II tra passaruota allargati, gomme da 185/60, prese d’aria vicine ai passaruota posteriori e paraurti sporgenti. Dettaglio molto sbruffone è la scritta Turbo II speculare sullo splitter anteriore, come sulla Bmw 2002 Turbo, giusto per farvi capire al volo cosa stia sopraggiungendo negli specchietti. Infine le sospensioni sono state riviste e i dischi anteriori sono autoventilanti. Negli anni ’80 vi era persino un campionato monomarca di City Turbo II R, con le carrozzerie così straripanti da sembrare delle Super Silhouette.

La Turbo II di questo servizio è stata prodotta in Giappone all’inizio del 1984 per poi finire a Berna già l’Ottobre dello stesso anno. Alberto – il proprietario – scovò la piccola hot hatch in condizioni tutt’altro che buone, acquistandola per riportarla allo splendore originario; vendendo un paio di reni e sorbendosi i secolari tempi di spedizione dal Sol Levante riuscì persino a reperire il kit Mugen, un optional offerto dal preparatore giapponese che prevedeva cerchi da 14’’ e paraurti ancora più bellicosi. Esteticamente la Turbo II è più che piacevole, dietro risulta un filo troppo squadrata e semplice mentre il frontale è davvero riuscito, con quel musetto sportiveggiante e i fari gialli sommati ai fendi dello stesso colore. Gli interni sono stati ritappezzati di recente, mantenendo la vistosa combinazione di colori d’origine, adeguata al carattere spumeggiante della Turbo II. La pecca maggiore della City di Alberto è – per assurdo – l’avere la guida a sinistra. Essendo una JDM, ovvero una vettura commercializzata sul solo mercato giapponese, la Turbo II dovrebbe avere l’esotica guida a destra, ma dopo un incidente la moglie dell’ex proprietario svizzero decise di convertirla ad uno standard più europeo e intuitivo. Un vero peccato. Mi accomodo così sul lato sinistro della Turbo II, e di primo impatto non andiamo tanto d’accordo. Gli interni sono accoglienti quasi quanto un salottino, piacevoli alla vista e soffici, ma lo sterzo è lontanissimo dal busto mentre la pedaliera è, al contrario, troppo vicina. Mi sembra di essere seduto su uno di quei chopper del SEMA. La strumentazione è molto istintiva, un quadrante digitale per la velocità avvolto dal contagiri analogico, la cui lancetta sobbalza appena avvio il compatto quattro cilindri.

Dall’inizio del Passo del Lucomagno – che ovviamente ha chiuso senza preavviso undici minuti prima del nostro arrivo – scendo verso valle, tentando di abituarmi alla strana ergonomia e litigando con la pedaliera che fa di tutto per rendermi scomodo il puntatacco. Il paesaggio è da cartolina invernale, un folto bosco di pini ammantato dalla neve che alle volte si scosta per svelare le maestose montagne sopra la vallata. L’assetto della Turbo (abbassato di una trentina di millimetri e reso più rigido) è fin troppo duro sull’asfalto svizzero, uno dei pochi tratti della nazione a non esser stato lisciato quanto la cima di una torta glassata; sono certo che le sospensioni originali assorbirebbero meglio le sconnessioni, pur concedendo più rollio alla scocca e togliendo precisione e immediatezza alla City, che sta fluidamente seguendo la bellissima strada davanti ai miei occhi. I freni a disco anteriori sono facili da spremere, il pedale non ha vuoti a metà corsa e i sette quintali da arrestare rendono le staccate semplici e prevedibili, per quanto l’impianto frenante abbia la tecnologia di quarant’anni fa.

Lungo la discesa me la prendo relativamente comoda per evitare del fading e conoscere bene la City, la cui carrozzeria bombata (che verrà ripresa dalla versione spider, disegnata da Pininfarina) genera svariati punti interrogativi nei passanti; e non abbiamo ancora sfoderato il Motocompo… che ovviamente è rimasto a terra così che non sbatacchiasse qua e là durante la prova. Nonostante il Lucomagno ci abbia giocato un brutto scherzo la parte bassa del passo è adeguata per testare la compatta giapponese, ed una volta fatta manovra nel paesino di Blenio faccio rimboccare le maniche all’1.2 litri con testa in alluminio/titanio e coperchio valvole in magnesio. Acceleratore a tappeto e wooooshhhhh, la turbina risponde pronta e le Yokohama (in questo caso delle 165/55) faticano a scaricare a terra la coppia della Turbo II, non quella di un V8 sovralimentato ma comunque capace di fornire uno spunto interessante.

A sorpresa il turbolag è ridotto e data la rapportatura corta posso mantenere senza problemi il motore a regimi ottimali, fra i 3 e i 5.000 giri. In quel range l’1.2 litri è corposo, frizzante, orgoglioso dei suoi 8,3 secondi da 0 a 100. Il volante è grossino e non particolarmente informativo seppur preciso, come se qualcuno vi desse delle indicazioni perfette ma dal fondo del Grand Canyon. E’ comunque abbastanza chiaro da farmi percepire lo sforzo delle gomme in uscita di curva, tanto che la trazione si rivela ottima nonostante in seconda e terza il picco di coppia rischi di far alzare bandiera bianca alle tenaci Yokohama. Sto risalendo rapidamente, sensazione confermata dal tachimetro che inizia a produrre un sonoro ‘dlin-dlin, dlin-dlin’ per avvertirmi di aver superato i 100 km/h; spremo ancora un po’ la City con il cupo sound dello scarico in sottofondo, il jingle orientale continua e mi fiondo in una chicane prima di staccare verso un tornante a sinistra.

La Turbo II non si scompone, il telaio è facile e neutro da gestire senza crearvi particolari patemi. Per quanto riguarda il cambio non aspettatevi la versione embrionale di una Type R, la corsa (e il gioco) della leva è parecchia, ma gli innesti hanno una qual certa dolcezza e precisione, leggeri come quelli di un simulatore amatoriale. La ‘Bulldog’ inoltre è piccola, minuta, il che significa avere a disposizione più asfalto e più traiettorie rispetto alle vetture moderne, un vantaggio da sfruttare ben volentieri alla base del Lucomagno. Dopo una mezz’oretta di guida decisa torno di fronte alla sbarra che ci impedisce l’accesso al passo, e per rilassarci testo l’ultimo asso nella manica della Turbo II, il Motocompo. Quel minuscolo motociclo non può non farvi felici: è buffo, simpatico, raro, geniale, sgargiante; il tutto in quaranta chili di plastica, acciaio e gomma che si piegano come un transformer.

L’avviamento a pedivella sveglia subito il mono cilindro da 2,5 cavalli, la seduta è comoda e il Motocompo è vispo, ignaro della quota e del non essere in centro a Tokyo. Con quelle ruotine minuscole il manubrio sterza più rapidamente di una Ferrari 458, ma una volta fattaci l’abitudine non potrete non apprezzare una tale esibizione di praticità. Il peso dichiarato è di 45 chili, e la velocità massima di 30 km/h, eppure sembra molto più leggero e anche più rapido di così. Per non sciuparlo lo ripieghiamo in breve, e mentre le ombre si allungano sul suolo svizzero tiro le somme sulla semi-sconosciuta ed originalissima City Turbo II. All’epoca non c’era granché che potesse superare la squadrata Honda: Uno Turbo mk1, 205 Rallye, Corsa Gsi, Fiesta XR2, Mini De Tomaso… la maggior parte di loro aveva meno cavalli e pesava di più, con rare eccezioni. Inoltre quelle city car speziate non avevano una fonte di sorrisi nel baule. Certo, con il Motocompo al seguito non avrete più spazio per la spesa, ma la vostra spesa non si può avviare a pedalina, non ha un tachimetro e non può portarvi comodamente in centro città spargendo felicità. Tre a zero per lui. La City è qualcosa di davvero speciale anche presa singolarmente: look incredibilmente personale, pieno di dettagli studiati e bombature, rivoluzionaria per il mercato giapponese e con tanto carattere. Al volante tuttavia non è un brivido di piacere costante, la guidabilità della Turbo II punta più sulla compostezza e sulla semplicità di portamento che sul profondo coinvolgimento, dove l’unica cosa complessa è la posizione di guida innaturale. Fortuna vuole che la pestifera City Turbo II abbia tante altre qualità per farsi perdonare… .

Un ringraziamento ad Alberto per la sua rara City Turbo II

                                                                                                                                                                                                                                           

                                      di Tommaso Ferrari