A MUSO DURO
Mentre la concorrenza si infiacchisce o scompare del tutto la Civic Type R diventa ancora più specializzata ed efficace. Forse troppo? Per scoprirlo le ho sguinzagliato contro il punto di riferimento della decade passata
Essere un progettista Honda non deve essere tutto rose e fiori: lavorate per un brand dalla reputazione granitica, un marchio che non sbaglia una hot hatch dai tempi dei treni a vapore e che ha prodotto alcune delle sportive migliori di sempre. Le aspettative sono alte. L’uscita di scena della Civic Type R FK8 – una hot hatch balistica ma disegnata in stile troppo ‘Mazinga’ – avrà generato la medesima ansia da prestazione, una scia di notti insonni perse su come replicare le prestazioni e le qualità dei precedenti modelli senza scadere nell’ibrido o nella trazione integrale, senza aver a disposizione un urlante Vtec da 9.000 giri, conservando lo stesso coinvolgimento e magari applicando un design che non piaccia solo a bambini di sei anni. Sono sicuro che sulle spalle dei progettisti della Ssangyong Rodius gravasse un fardello minore. Ad inizio dello scorso anno la casa giapponese ha rivelato l’erede definitiva della FK8, la Civic Type R FL5: stile più posato, meccanica più potente, dinamica ulteriormente affinata e una qualità costruttiva maggiore; praticamente una FK8 che da adolescente ribelle è diventata adulta. In mezzo a queste migliorie balzano all’occhio due o tre cosucce di non poco conto: A – la FL5 dovrebbe essere una compatta sportiva, ma oramai è lunga 4,60 metri, che per la categoria equivale ad un campo da calcio; B – le Pilot Sport 4S di serie hanno il battistrada largo 265 mm, una misura non indifferente generalmente riservata a Suv o coupé sportive; C – la nuova Civic… costa. Tanto. Veramente tanto. Il listino passa dai poco più di 40.000 euro della FK8 ai 59.300 dell’attuale modello, cifra che apre svariate porte nel nuovo e infinite porte nell’usato.
Per compensare cotante pecunie la Civic Type R dovrà mostrarsi estremamente valida, ma i primi indizi fanno ben sperare. Partiamo dal motore: per quasi sessantamila euro vi aspettereste un propulsore intergalattico alimentato a materia oscura, invece il K20C1 – stessa unità della FK8 – guadagna una manciata di cavalli e Nm in più, arrivando a 329 cavalli e 420 Nm di coppia. Sembra un’inezia, se non fosse che nella vita reale 329 cavalli scaricati a terra nella loro interezza significano mettere in serio imbarazzo una 911 base nel misto. Il volano è stato alleggerito del 18% rispetto a prima, la girante della turbina è stata rivista per avere il 14% in meno di inerzia, i gas di scarico escono dal terminale triplo il 13% più rapidamente ed è stato fatto un lavorone per migliorare il raffreddamento durante l’uso intenso in pista o su strada; non ultimo, Honda ha reso l’erogazione più lineare e uniforme, così da ricordare un aspirato garantendo un’uscita di curva più pulita ed efficace. Piccole migliorie per un risultato significativo, considerato che le prestazioni – 0-100 in 5,4 secondi e 275 km/h di velocità massima – sono da categoria superiore. Il cambio, quel favoloso cambio, è stato migliorato ancora, idem per le finezze riguardanti assetto e masse non sospese (i cerchi ad esempio tornano ad essere da 19’’ anziché 20’’, una gradita decisione). Mentre la meccanica ha avuto lievi accorgimenti, il design è cambiato completamente puntando su un look più composto e meno teatrale e al tempo stesso più piacevole, in particolare l’anteriore e la vista a tre quarti. Il profilo è molto più allungato e snello, in grado di mascherare – a fatica – la lunghezza della Type R; non mancano loghi e pinze rossi, il triplo scarico centrale, l’ala al retro e un assetto più acquattato.
Altro stravolgimento sono gli interni, ridisegnati e di gran lunga migliori, più eleganti e minimali rispetto a quelli della FK8 (troppo pacchiani) e con un aspetto – visivo e tattile – quasi premium. Bellissima la sottile griglia che corre lungo la plancia e include le bocchette d’aerazione e la targhetta Type R. E’ innegabile che i cambiamenti siano stati numerosi, sia cosmetici che meccanici, ma per scoprire se questi ritocchi non stiano bene solo sulla carta ci siamo portati dietro una Mégane RS 265 Cup, dieci anni fa la miglior hot hatch sulla piazza (Mégane RS 275 Trophy-R a parte, introvabile). E sì, non sono i postumi tardivi dell’alcool o la labirintite ad ingannarvi, ha due cerchi bianchi e due cerchi rossi. E’ proprio dalla Renault che inizio, una vecchia amica affinata dal proprietario (scarico RS, Michelin Cup 2, rimozione dei sedili posteriori) e nostalgica testimonianza di quando i francesi sapevano ancora fare le hot hatch.
I sedili Recaro per quanto rigidi e sottili sono eccezionali nel contenervi, il grossolano volante è un po’ troppo in alto e la pedaliera non su misura per il punta tacco, ma nel complesso mi trovo sempre bene, conscio di poter spremere ogni stilla di questa hot hatch lungo il Maniva, luogo della prova di oggi. Il 2.0 litri turbo ha una foga rabbiosa e un lag non indifferente, ma quando entra in coppia dimostra più dei 265 cavalli dichiarati spingendo in maniera robusta anche in alto, mentre l’autobloccante meccanico scava alla ricerca di trazione. Già l’LSD lavora incessante come un maglio, con l’aggiunta delle Cup 2 la trazione e la tenuta della Mégane diventano davvero qualcosa di temibile. Raggiungo i famosi radar Nato della zona ad un passo – lo ammetto – da delinquente, col quattro cilindri che tuona dallo scarico in scalata e la francese che saetta tra le curve precisa come un calibro, tronfia della sua prestazione.
Il cambio pur non essendo dei più fluidi è secco e preciso, i freni sono potenti e il telaio ha sempre voglia di giocare; mi mancava questa francesina. La Civic non potrà prendersela comoda. Apro la massiccia portiera della giapponese e mi accomodo in sedili ancora più avvolgenti eppure comodissimi, tappezzati nell’immancabile colorazione rossa e posizionati molto in basso. Il volante in Alcantara è piacevole al tatto e da impugnare, l’erotico pomello del cambio è esattamente dove dovrebbe essere e la pedaliera è spaziata alla perfezione; ci metto solo un attimo ad ovviare – regolando la posizione di guida – allo stelo troppo verticale del freno, che tocco con la punta del piede nelle staccate più decise, per il resto l’ergonomia è impeccabile. Le regole della modernità impongono che prima di partire debba spegnere start&stop e rilevatore di corsia, mentre per il sound artificiale non posso certo mettermi a scovare la sorgente per strapparla e buttarla giù da una scarpata. Purtroppo.
Il Rev Match non è invasivo, aspetta sempre quel decimo di secondo per verificare che facciate voi il punta tacco, altrimenti ci pensa lui. Ora che non vi sono distrazioni posso accendere il K20C1, troppo muto per i miei gusti (suona già meglio dall’esterno) e che a breve saprà come farsi perdonare. L’asfalto del Maniva è peggiorato a causa di tutta la neve caduta il passato inverno, costringendomi a percorrere in maniera relativamente tranquilla il tratto iniziale per scovare eventuali voragini o pietre a metà carreggiata, puntualmente in agguato. Le prime sfaccettature della Civic iniziano a entrarmi sottopelle: il muso risoluto è inamovibile dalla traiettoria intrapresa, come una freccia scoccata da una balestra, il 2.0 litri ha una erogazione praticamente da aspirato e il cambio, ragazzi, che goduria. Honda è sempre stata maestra nelle trasmissioni, ma il cambio della Type R è una delizia, meccanico e leggero, sensibile e ancor più fluido di quello della S2000.
Lo sterzo – anche se meno sostanzioso rispetto a quello della Mégane – è più comunicativo e dettagliato, mentre la frenata è massiccia e bilanciata. In breve la confidenza cresce, e le medie pure. Inizio a ricercare i limiti delle 4S, a fiondare l’anteriore in curva come se la Civic fosse una compatta a motore centrale, ricevendo in cambio sensazioni sopite da tempo. Quel magico feeling dell’autobloccante che concede il minimo grado di slittamento a favore del grip – trasmesso alle vostre dita dal vibrante sterzo – è lì presente, pronto a ricordami la tanto amata Integra Type R DC2. Il motore ha una erogazione particolarissima, non piatta pur avendo una linearità da aspirato, con una ripresa fluida già a 2.000 giri e una progressione che non ha cali fino alla linea rossa; potrebbe sembrare noioso, ma in uscita di curva è efficacia distillata. Ormai ho un ritmo piuttosto allarmante e nonostante le 4S (un gradino in basso rispetto alle Cup 2) la Civic sfoggia la stessa tenuta, se non superiore, della RS tanto è ben progettata. Le dimensioni – a livello di ingombri e spazi – non possono essere nascoste, la mole sì, tant’è vero che la nuova Type R è stabile come la precedente FK8 ma più giocosa a livello di telaio, una sorpresa contando i suoi 4,6 metri. Arrivo scomposto prima di un doppio tornante, il retro si intraversa leggermente in staccata e appena premo nuovamente l’acceleratore la Civic si strappa fuori dal punto di corda come un cerotto levato da un amico rancoroso.
Ho tolto i controlli con l’apposito tastino, ma per eliminarli sul serio andrebbe fatta una specie di danza del ventre digitale che non conoscevo, fortunatamente il taglio dell’elettronica resta nell’ombra e solo una volta fa fastidiosamente capolino. L’assetto è rimasto quasi sempre in Comfort considerando che gli ammortizzatori sono sì magnificamente tarati ma già nell’impostazione più ‘blanda’ si rivelano parecchio rigidi e con poca corsa; in modalità +R diventano fin troppo duri per la strada disastrata del Maniva, tanto che a volte pare che le gomme perdano contatto con l’asfalto tra una contropendenza e l’altra! Per quanto mi piaccia tanta vivacità è meglio lasciare il motore nella modalità più teppista e le sospensioni in quella meno ribelle, ottenendo la combinazione ideale per la strada. In +R la Civic diventa ancora più tagliente e viva, incontenibile nell’arrampicarsi verso i radar del Dosso dei Galli e i suoi 14 quintali (1.420 chili con mezzo serbatoio per la precisione) si animano come per magia, sfoggiando una performance ineccepibile. Eppure, nonostante tutto, nemmeno la migliore hot hatch sul mercato è esente da difetti. La modernità ha velato parte del carattere tipico delle Type R, o meglio, ha reso l’FL5 spietata in quanto ad efficacia ma fin troppo ‘educata’, specialmente rispetto al carattere grezzo della Mégane.
La francese è un contadino con la pelle incartapecorita dal sole e le mani piene di calli, le cui competenze derivano da decenni di esperienza all’aria aperta; burbero e scorbutico, ma ampiamente preparato. La Type R è un enologo che dopo cinque anni di università si è fatto un master all’estero in qualche vigneto dal nome altisonante e impronunciabile per poi essere assunto in una rinomata cantina: oggettivamente più preparato dell’altro, ma fin troppo posato, restio a lasciarsi andare. La differenza sta tutta qui, la nuova Civic è stramaledettamente buona, trasforma cavalli in grip e nonostante gli ingombri sa coinvolgere sul serio, la vorrei solo un po’ più maleducata, insolente. Se l’FL5 avesse la foga della Renault Sport verso la linea rossa, qualche filtro in meno e fosse un pelo più corta sarebbe veramente perfetta, ma anche così resta allucinante. E’ lei la trazione anteriore del momento.
Un ringraziamento a Daniele e Claudio per la comparativa
di Tommaso Ferrari