RUGGITO ARGENTINO

Ruvidità americana e stile italiano conditi con una sfumatura argentina. La Pantera GTS combina il meglio di due mondi (tre) per un cocktail esplosivo, e troppo spesso scordato

Due parole, otto sole lettere capaci di racchiudere in una breve emissione di fiato il peso di un marchio unico nel panorama italiano: De Tomaso. Il brand italo-argentino è stato autore di vetture teatrali, inconfondibili, riuscendo persino a far concorrenza ai grandi nomi nostrani, solo che ben pochi ne conservano memoria. La scia lasciata dalla De Tomaso è in effetti come un evidenziatore che va esaurendosi: inizialmente vivida, vivace, brillante, poi, mano a mano che il tempo passa la traccia comincia a sbiadire e ahimè non potete far nulla per ravvivarla. Oggi vedrò di fare del mio meglio. Le vicende del marchio hanno subito un tramonto sfortunato e malinconico, ma dal 1959 fino agli anni ’90 quell’esuberante casa non è rimasta agli angoli del ring. Alejandro de Tomaso è nipote di un ricchissimo imprenditore locale e figlio di un influente politico, mentre la madre possiede una delle più grandi tenute dell’Argentina, la Estancia De Tomaso. Insomma, i soldi non mancano. Quando il padre muore prematuramente il giovane De Tomaso si trova a dover coniugare il lavoro nell’attività di famiglia con la sua passione da pilota, e anche Alejandro è attivo politicamente. Forse troppo, dato che nel dopoguerra delle posizioni ‘problematiche’ lo costringono a fuggire e trovare rifugio in Italia. Nel 1955 è ingaggiato dalla Maserati e poi dalla Osca come pilota e collaudatore, e nell’ambiente conosce Elizabeth Haskell, pilota e comproprietaria della ricchissima Rowan Controller Industries; la fanciulla amante della velocità diventa la seconda moglie di Alejandro che, manco a dirlo, si trova spalancato un portone di possibilità. Nel 1959 nasce la Automobili De Tomaso, il cui logo riprende i colori argentini e la ‘T’ con la quale veniva marchiato il bestiame della tenuta materna.

Alejandro è un fuoco d’artificio di idee, produce subito la Vallelunga e in contemporanea – assieme a Carroll Shelby – sviluppa la P70 per le competizioni. Due personalità così ingombranti rischiano di fare a testate facilmente, ed è esattamente ciò che accade: Shelby lascia il progetto per dedicarsi a quella che diventerà la leggendaria GT40 mentre De Tomaso termina la P70 che avrà un esito molto più sfortunato. Nel 1966 un indispettito Alejandro presenta una sportiva mossa da un grosso V8 americano Ford, con una bellissima carrozzeria by Giugiaro e realizzata dalla Ghia, all’epoca controllata della De Tomaso. Il nome scelto è Mangusta, un animale noto per la sua ferocia verso i Cobra… una frecciatina sottile come un treno verso Shelby. Nei decenni successivi nascono berline e sportive intrise di carattere (la Longchamp, la Deauville, la Guarà…) ma quella che rimarrà a fuoco nella memoria di tutti è la Pantera: linea mozzafiato disegnata da Tom Tjaarda, telaio monoscocca sviluppato in collaborazione con Dallara e un grosso V8 da 5.8 litri sempre Ford che arriverà a 350 cavalli. Insomma, jackpot, jackpot, jackpot. Finalmente De Tomaso può cercare di competere con il pantheon italiano di Countach, 365 GT4 BB e Bora, un privilegio per pochi. Della Pantera non viene tralasciato nessun aspetto, il cambio è uno ZF a cinque marce con schema ad H rovesciata, il differenziale è autobloccante, i freni a disco sono autoventilanti e il possente V8 aspirato è montato il più vicino possibile all’abitacolo. La Pantera risulta esotica come una Lamborghini e veloce come una Ferrari. Specialmente nelle versioni GTS e GT5 era impossibile non voltarsi a guardarla e negli anni ’70 uno 0-100 in 5,5 secondi e una velocità massima di 280 km/h erano roba seria. Anche se la supercar di Alejandro non raggiungerà mai il successo della concorrenza è stata capace di giocare al tavolo dei grandi, senza complessi di inferiorità.

Lo capisco subito appena percorro la scala che conduce al ‘sottosalone’ dell’Autoluce di Modena, dove sono nascoste decine di meraviglie. Lì, nella penombra, riposa la Pantera GTS, una creatura che mi strega all’istante. La GTS (nata per competere nel Gr.3) si distingue per minacciosi passaruota rivettati, cofano anteriore e posteriore nero, verniciatura bicolore e cerchi più grandi, oltre a 350 cavalli estrapolati dal V8 Cleveland. E sì, anche le gomme posteriori larghe quanto il Belgio aiutano nell’intimidire. Se pensate che un rude V8 d’oltreoceano non possa competere con un V12 italiano avete ragione solo a metà: non riesco ad immaginare un propulsore più azzeccato per linee così arroganti e decise, e aggiungeteci pure un sound rabbioso e prestazioni ragguardevoli. E’ un dispiacere pensare che anche la Pantera – tra scarsità di fornitura dei V8 e restyling poco azzeccati – abbia avuto un declino repentino. Quasi il 90% degli esemplari venne venduto nei primi quattro anni e il restante 11% in quasi due decadi, e mentre mi accomodo al suo interno continuo a chiedermi come mai tante cose siano andate storte. Gli interni sono meno estrosi dell’esterno e ben rifiniti: pelle nera per i sedili, una simil Alcantara per il cruscotto e un bellissimo Momo Prototipo dalle dimensioni inaspettatamente ridotte. Fortuna che le gomme anteriori non sono larghe quanto quelle posteriori. Destiamo il V8 da 5.8 litri e ci spostiamo di pochi chilometri alla ricerca di qualche sfondo ‘industriale’ che faccia risaltare l’aggressività della Pantera finendo – toh guarda – proprio di fronte ad uno stabilimento della Maserati, l’ex datrice di lavoro di Alejandro.

Sarà l’emozione dei ricordi, sarà la timidezza per lo shooting, fatto sta che la GTS comincia a comportarsi come ogni supercar italiana degli anni ’70 che si rispetti: non parte più. Bene. Questa Pantera è stata restaurata dal primo all’ultimo bullone ma per quanto il V8 sia una favola rimangono da sbrogliare un paio di problemini di accensione. Riusciamo a ripartire a spinta (e lì sì che ci siamo sentiti catapultati negli anni ’70) e tornare fino al salone dove ci armiamo di un booster e di refrigerante per ogni evenienza. Ci rimettiamo in strada con le dita incrociate e la Pantera ci premia senza più problemi e con un pomeriggio epico, salutata da diverse persone incredule di vederne una a giro al posto delle ‘solite’ Lambo o Ferrari. Tra uno spostamento e l’altro mi sono già messo al volante per brevi tratti, ora però gli scatti sono terminati e posso godermi a pieno questa supercar dal passato burrascoso. La posizione di guida è piuttosto rilassata e distesa, non siete intrappolati in un cestello della lavatrice come in altre sportive dell’epoca e l’ergonomia generale mette subito a proprio agio. Avevo qualche pregiudizio sulla De Tomaso, è pur sempre una supercar di cinquant’anni con una fama abbastanza bastarda e mascolina, così mi aspettavo un macigno poco fluido. Invece no. Ha le sue imperfezioni, ma molti suoi lati sono sorprendenti, il cambio ZF in primis. La forma a lama della leva e il suo particolare punto di fulcro rendono le cambiate meravigliose, nette, incredibilmente precise e morbide, anche scalando senza doppietta i sincronizzatori accolgono gli innesti con un fermo aplomb; e pensare che temevo di trovarmi a muovere una specie di spada nella roccia. La prima in basso e la gabbia aperta rendono il tutto ancora più coinvolgente, specialmente nel seconda-terza.

Il V8 brontola alle mie spalle scuotendo le vallate modenesi, non è un sound pulito e melodioso, è un qualcosa di grezzo, cavernoso e certamente minaccioso che fuoriesce dagli scarichi Ansa (bellissimi i terminali rifiniti in rosso). 350 cavalli non sono pochi, le curve si susseguono in fretta e il piccolo Momo dà veramente una grossa mano in termini di reattività e inserimento. Date le dimensioni ridotte devo usare tutti i muscoli delle braccia una volta arrivati al limite, e poi cercare di sfruttarne la comunicatività per restare in equilibrio tra grip e sotto o sovrasterzo. Per la verità la De Tomaso ricorda poco una supercar a motore centrale: in ingresso curva è piuttosto precisa e rapida e l’anteriore è leggero, ma il retrotreno non è particolarmente nervoso o indisciplinato, anche provocandolo è quasi pacato, di certo più del previsto. Certamente il propulsore così avanzato e delle gomme da autotreno al posteriore aiutano, per sollievo di qualunque passeggero. Anzi, il lato buffo è che verso il limite mi devo basare più sulla comica flessibilità della spalla delle gomme che sulle sensazioni del telaio vero e proprio, di suo molto bilanciato. Percepite chiaramente quanto quei gommoni si stiano piegando alle leggi della fisica mentre il corpo vettura oscilla, una lotta impari che dovete gestire dosando la potenza del V8 e disegnando traiettorie fluide che non stressino inutilmente la De Tomaso. Le sospensioni sono dure ma non tremende, i freni invece per quanto discreti restano sottodimensionati per i numeri che la Pantera può stampare sul tachimetro. Il pedale centrale poi è assurdamente alto rispetto all’acceleratore, come se avessero litigato e non volessero più stare vicini. In staccata dovete alzare il polpaccio quasi steste scavalcando del filo spinato, poi tutta la pedaliera si riallinea e scoprite che è anche comoda per il puntatacco… dopotutto quel temporale a otto cilindri merita di essere ascoltato anche in decelerazione. Nonostante la De Tomaso sia un’auto imponente, non leggera – circa 14 quintali – e certamente fisica da guidare si rivela agile, specialmente per essere una supercar di mezzo secolo.

Nei dintorni di Modena ci sono svariati tratti sinuosi ed è un peccato non avere tempo per portarla ancor più a sud, dove le strade secondarie sono tortuose e poco battute. Guidare la De Tomaso è impegnativo e appagante al tempo stesso: vero, ha dei difetti ma telaio, gomme, sterzo, meccanica… ogni componente cerca di trasmettervi informazioni, anche se starà a voi interpretarle per domare la GTS. Il tutto sfruttando quel meraviglioso cambio e il rabbioso motore Ford. Sarà anche rimasta nell’ombra della sua complicata e altalenante storia ma la Pantera è un diamante tutt’altro che grezzo, una supercar emozionante, coinvolgente, fisica e con un look davvero speciale. Vistosa senza essere chiassosa, minacciosa pur conservando una certa eleganza, e con lati di una raffinatezza inattesa. La Pantera ha un nuovo ammiratore: non le stacchereste gli occhi di dosso per quelle linee fantastiche, ha un V8 che contiene a fatica il suo carattere e persino a livello dinamico stupisce. La De Tomaso è un bicchiere di vino pregiato con un retrogusto amaro, una fiaba che purtroppo non ha un lieto fine… o qualche riga può essere ancora scritta? Dopo diversi tentativi di acquisizione più o meno falliti nel 2015 il marchio è stato rilevato dalla Ideal Team Ventures Limited, brand che tre anni fa presentò al Festival Of Speed di Goodwood quella supercar sexy chiamata P72. Il nome rimanda chiaramente alla P70, il design è ispirato alle auto da corsa italiane degli anni ’70 e il motore è nuovamente un V8 Ford, persino sovralimentato e con 700 cavalli. Ne verranno prodotte solo 72, e date le mascelle slogate alla presentazione non dubito del suo successo, un bellissimo omaggio ad una casa che avrebbe certamente meritato di più.

Grazie a Daniele e Riccardo per questa fantastica Pantera

 

di Tommaso Ferrari