SINDROME DI STOCCOLMA

 

Mi ha trattato male, fatto sentire un novellino e spaventato in una maniera che non credevo possibile, ma era inevitabile che mi innamorassi perdutamente di quell’incredibile e purissima opera d’arte che è la 911 R. Un privilegio averla potuta guidare.

3.45 di mattina. La sveglia suona con insistenza per farsi notare e appena trovo risposta alle domande “cosa sta suonando, dove e soprattutto perché” il mio cervello si scuote dalla nebbia nella quale è immerso e inizia a lavorare a pieno regime. Generalmente – per quanto io sia uno mattiniero – un risveglio così prematuro mi vedrebbe rimandare un paio di volte l’uscita dal letto, sbattere contro ogni porta possibile e rovesciare metà caffè su di me e l’altra sul piano della cucina. Non oggi però. Non quando dovete trovarvi prima dell’alba in cima al Passo del Maniva insieme a quella che è considerata il Sacro Graal delle Porsche stradali, la 911 R. L’adrenalina circola già in modalità qualifica e dopo essermi vestito salgo in macchina e giungo ampiamente in anticipo (che belle le strade vuote) al punto di ritrovo. Quattro anni fa Porsche – ispirandosi alla R del 1967 – presentò la 991 R, un’auto splendida, anche se fatta eccezione per un nuovo cambio a sei rapporti manuale e una cinquantina di chili in meno era una sorta di GT3 RS senza ala, rollbar e con un paio di strisce verdi o rosse che correvano lungo la carrozzeria. La R originale al contrario non ha mezzo bullone in comune con l’auto sulla quale è basata, ed è frutto di una dedizione ossessiva verso la riduzione del peso e la ricerca di prestazioni pure. Gli ingegneri Porsche hanno accantonato le birre e usato tutta la loro freddezza calcolatrice e razionalità per creare qualcosa di fenomenale, così estremo da lasciarvi interdetti. Ad un occhio disattento potrà non apparire troppo diversa da una 911 2.0 litri passo corto in Light Ivory White con strisce laterali nere, ma qualunque altro aspetto della R – meccanica, pannelli, trasmissione, sospensioni etc. – è stato stravolto per raggiungere l’eccellenza e dominare nelle corse.

Prendete il propulsore ad esempio. Anziché perdere tempo ad elaborare il motore della S, Porsche ha pensato fosse sensato infilare il flat six 2.0 litri della mostruosa 906 Gruppo 4 – senza praticamente modifiche – dentro la scocca di una 911, completo di carburatori Weber da 46, doppia accensione, bielle in titanio e scarichi liberi. Il risultato è qualcosa di folle, 210 cavalli a 8.000 giri (con un limitatore conservativo a 8.500) che devono muovere 800 chili, 230 in meno rispetto alla versione stradale. I numeri però non rendono neanche per sbaglio l’idea di quanto sia cattivo, violento, feroce e rumoroso quel flat six, un motore che sposta una carrozzeria più leggera di un involtino primavera e che non ha mai imparato cosa sia l’inerzia. Immaginate un procione legato a un razzo e non sarete tanto lontani dalla realtà. Si dice che il flat six della 906 da solo costasse come due 911 2.0 nuove, e che la FIA non bevve la storiella secondo la quale la R fosse una 911 S migliorata, così Porsche produsse solamente 19 esemplari, 15 venduti a privati e 4 usati come prototipi o tenuti dalla casa per competizioni o rally dove non fossero necessari centinaia di esemplari per l’omologazione. Una volta provveduto al motore i tecnici Porsche hanno rivolto l’attenzione all’esterno realizzando paraurti, portiere, copertura motore e cofano anteriore in fibra di vetro, han montato un parabrezza spesso meno di mezzo centimetro e finestrini in plexiglass sottili due millimetri, rimuovendo persino i tappi dei mozzi delle ruote per risparmiare grammi. Poi i tedeschi ci hanno preso gusto, si sono dati qualche pacca sulle spalle a vicenda e hanno iniziato a limare peso in una maniera talmente compulsiva che Colin Chapman sarebbe stato fiero di loro.

Qualunque cosa è stata alleggerita o, se inutile, semplicemente cestinata: le cerniere delle portiere sono in alluminio, le maniglie in plastica, l’astina del cofano anch’essa in alluminio, i fari Bosch non sono in vetro bensì in plastica, il meccanismo alzavetri è stato rimosso e sostituito con semplici cinghie di cuoio scorrevoli, i tappi del serbatoio di benzina e olio sono forati, gli interni sono svuotati, il cassettino non ha il coperchio, lo stemma del marchio è un adesivo… nulla è stato risparmiato. La portiera peserà cinque volte meno di quella di un’auto moderna e quando mi accomodo all’interno scavalcando il rollbar… mi sembra nuovamente di essere bambino e di non riuscire a vedere al di fuori dell’abitacolo. Per – casualmente – risparmiare peso infatti il sedile del passeggero non ha una vera struttura, è più leggero, piccolo ed è montato su due traversine attaccate al pianale, facendovi sedere più o meno all’altezza del cassettino. Completata la procedura di accensione il proprietario risveglia il meraviglioso flat six 901/22 dal suo torpore, e probabilmente insieme ad esso anche chiunque nel raggio di tre chilometri; Dio se è rumoroso. Al superare dei 3/4.000 giri non pensiate minimamente di poter tenere una conversazione, ma anche a bassi giri dovete sgolarvi per farvi a malapena capire. I primi chilometri però (e quelli dopo, e quelli dopo ancora) li percorriamo pianissimo per rispettare i tempi della R: ci sono circa quindici litri di olio che devono scaldarsi e alle cinque di mattina non è la cosa più rapida del mondo. Serve oltre mezzora per superare gli ottanta gradi e da lì in poi la 911 non si tira indietro nel risvegliare l’intero Monte Maniva. Che sound, che furia, che sensazione.

Poi arriva l’alba, e da un freddo e pigro blu l’intero panorama si tinge di un caldo arancione che fa brillare le cime delle montagne e illumina la carrozzeria allargata della R, sporca e fascinosa come se fosse appena tornata da una 24 Ore. Iniziamo a scattare usando tutte le splendide strade e scenari che il Maniva offre fino all’ora di colazione dove la spia della riserva del serbatoio da 100 litri ci ricorda che un motore da corsa non consuma esattamente quanto un tre cilindri ibrido… così finiamo il caffè e mettiamo la R in modalità ‘Eco’ – ovvero spenta – veleggiando in discesa fino al primo distributore di 100 ottani, che come potete immaginare non è dietro l’angolo. Una volta richiuso quel bellissimo bocchettone alleggerito inizio a sentirmi un pelo in ansia, sto per accomodarmi nel sedile ‘giusto’ e ho già capito che la R mi darà del filo da torcere, o per dirla correttamente, spero mi riservi almeno un briciolo di pietà. Che illuso. Scavalco il rollbar in maniera più agevole visto che il sedile del guidatore è montato più in alto e mi trovo a fissare un contagiri con fondoscala a 10.000 e un’enorme spia rossa che vi avverte quando la pressione dell’olio è troppo bassa; questi e i lacci di cuoio per regolare i finestrini in plexiglass sono dettagli che farebbero inorridire Victoria Beckham e fanno godere noi appassionati che vediamo solo purezza e fissazione per la velocità. Ingrano la prima all’indietro – il cambio è con schema ‘dogleg’ – e sollevo la frizione percorrendo nuovamente i primi chilometri a passo d’uomo per scaldare l’olio e non attirare (molto difficile con questi scarichi) l’attenzione di qualche pattuglia, ma anche per prendere confidenza con il complesso cambio. Sono un fan dello schema dogleg ma tra quello, i rapporti così corti da confondervi e dei leveraggi talmente vicini che le marce sono racchiuse nello spazio di una monetina, è piuttosto facile mettere la quinta anziché scalare in terza o peggio mettere la seconda al posto di salire in quarta.

Ammetto di aver mancato qualche scalata sentendomi un po’ un pirla e un po’ frustrato non avendo a disposizione giorni e giorni per conoscere meglio la trasmissione, tuttavia gli innesti sono precisi, meccanici e vigorosi come piace a me e il cambio conferma chiaramente di essere la massima evoluzione di questo modello. Sceso a patti col cambio mi concentro su tutto il resto… che è sconvolgente. L’acceleratore è così affilato e pronto che pare anticipi il vostro pensiero e il motore è una forza della natura: ha un sound selvaggio e intenso come poche auto al mondo e un fantastico ‘tutututuggrrrin rilascio unito a una ferocia che vi mette soggezione; è una sinfonia celestiale di carburatori, alberi a camme e scarichi che sembra – e in effetti un po’ lo è – la versione antica del flat six della 996 Cup, solo più cattiva. Inizio a fare qualche allungo per vedere cosa significhi avere il motore di una 906 infilato nella scocca di una 911, ma dopo qualche tratto che mi lascia impressionato mi rendo conto che sto usando solo il 60/70 % della corsa… e la cosa non promette nulla di buono. Raccolgo tutto il coraggio che mi è rimasto, affondo il pedale, ed è il finimondo. Il flat six ai bassi è scontroso e dà il suo meglio sopra i 3.500/4.000 giri, solo che il suo meglio è follia pura: l’accelerazione è destabilizzante, quei 210 cavalli sono così violenti da sembrare 600 e il peso piuma della carrozzeria non vi fa avvertire la minima presenza di inerzia. Nell’ultimo 20% della corsa percepite proprio le farfalle dei carburatori triplo corpo che si spalancano per ingurgitare aria e benzina e trasformarla in una spinta che ha del ridicolo.

Tra i latrati degli scarichi e le sensazioni di pura accelerazione domino a stento lo smarrimento; sto guidando un’auto del 1967, e un’auto del 1967 NON dovrebbe andare così forte; fate fatica a far combaciare le cose nel vostro cervello. I freni al contrario mostrano buona parte dei loro 53 anni: l’impianto ha una potenza dignitosa ma non esiste servofreno così vi tocca usare i vostri polpacci più quelli del passeggero per frenare in maniera efficace. E’ come cercare di arrestare un meteorite con una robusta rete da pesca. Sulla R però bisogna cercare di affidarsi poco alle pinze in alluminio e guidare in maniera più pulita e scorrevole possibile, bilanciando l’auto con l’acceleratore senza variazioni brusche. Il telaio infatti è speciale ma – non c’è un modo carino per dirlo – è anche il più bastardo e complesso che abbia mai incontrato. In ingresso curva esiste una frazione di secondo dove sentite l’anteriore galleggiare e sottosterzare come se la scocca volesse andarsene per proprio conto, poi si riassesta, e se gestite il gas in maniera costante e date delicati input allo sterzo riuscite a percorrere puliti l’intera curva. Date troppa potenza in uscita però, o chiudete bruscamente la traiettoria, e la R parte immediatamente di traverso con un movimento istintivo da correggere anche se assolutamente senza preavviso. Con un differenziale autobloccante così aggressivo e una distribuzione dei pesi così particolare è una lotta pericolosa spingere questa Porsche da corsa, un’auto che non sopporta gli incerti o gli inesperti. E’ difficile far capire quanto sia potente e selvaggio quel motore rispetto a gomme e freni o rispetto alle vostre aspettative, siete sommersi e inondati da sensazioni eccitanti e elettrizzanti ma con poco tempo a disposizione per assorbirle, figuriamoci per domarle.

Lo sterzo è più piccolo e preciso della 2.0 stradale e come quello si appesantisce moltissimo in percorrenza, specialmente nei tornanti veloci, il sedile vi fascia bene, la pedaliera è nata per il punta tacco e anche se il rumore degli scarichi copre tutto percepite fruscii, cigolii e scricchiolii atipici per un’auto tedesca, se non fosse che questi rumori sono la perfetta testimonianza del ridicolo peso della R. Persino questo aspetto è entusiasmante. Quando ci avviamo verso la fine della giornata provo sentimenti contrastanti: un senso di amaro per non essere riuscito a legare con la R quanto avrei voluto (ma dopotutto lei fa di tutto per non farsi imbrigliare), parecchio sano terrore per un mezzo d’epoca dalle prestazioni inverosimili e dal carattere unico e un’emozione esagerata per le sensazioni purissime che questa rara Porsche ha saputo trasmettermi. Dopo che scavalco il rollbar – stavolta per uscire – resto con i battiti accelerati per una ventina di minuti; sarà l’agitazione o la soggezione, ma non mi era mai capitato con nessun’altra auto. La R mi ha sconvolto, spaventato, impressionato e fatto sentire a tratti di nuovo un principiante, ma mi ha dato delle emozioni alla guida che non dimenticherò mai.

Grazie Gio

di Tommaso Ferrari